Cosa c'è dietro il boom dei virtual influencer? L'esperto: «Parleremo sempre più spesso con non umani»
Conquistano milioni di follower. Generano profitti. Li amiamo. Ma perché Lil Miquela, Kami ed Emily Pellegrini hanno così tanto successo? Lo abbiamo chiesto al filosofo Davide Sisto, che ci invita a prepararci: «Il fenomeno non scemerà. E ci impone una serie di interrogativi etici»
Performanti a livello disumano, pericolosamente perfetti e sessualizzati, ma anche in grado di suscitare empatia e fiducia negli utenti. Parliamo dei virtual influencer, gli ologrammi da milioni di like, nonché la nuova frontiera dell’influencer marketing. Ne discutiamo con Davide Sisto, filosofo, tanatologo, docente all'Università di Torino e al Master «Death Studies & the End of Life» dell'Università di Padova. Sisto ha pubblicato per Einaudi, a settembre, "Virtual influencer, il tempo delle vite digitali".
In primis, facciamo chiarezza: chi sono i virtual influencer?
«I virtual influencer sponsorizzano brand, fanno attivismo politico, condividono le loro routine, creano contenuti accattivanti per i social. Insomma, non hanno nulla di diverso rispetto ai classici influencer, con l'eccezione, però, che non esistono, o meglio, non sono persone reali. I virtual influencer sono ologrammi creati a computer da società che si occupano di digitale e che ne plasmano l’estetica attraverso l’acquisizione di dati ed immagini fotografiche prodotte da altri utenti.
Ne derivano personaggi canonicamente perfetti, completati da un corredo emozionale molto profondo. Ed ecco che l'ologramma racconta la propria storia, sperimenta il suo stile e mostra la sua personalità. Un'identità completa costruita a tavolino da esperti, senza l'ulteriore impiego di intelligenza artificiale, per renderli più umani possibile».
Nel libro riporta che circa 3 milioni di italiani seguono i virtual influencer su Instagram. Cos'è, esattamente, che stimola interesse ed empatia negli esseri umani?
«Le ragioni sono molteplici. In primis, i virtual influencer non sono reali e questo gli utenti lo sanno. Questa consapevolezza innesca un meccanismo psicologico simile a quando guardiamo un film e ci affezioniamo ad un personaggio: sappiamo che è finto, ma in ogni caso finiamo per proiettare noi stessi, i nostri desideri e sogni all’interno del suo sistema mondo. Nel caso specifico dei virtual influencer, questa proiezione avviene proprio perché, a differenza degli influencer umani, non c’è menzogna. Gli utenti sanno che la vita perfetta degli influencer virtuali non esiste e il fatto che loro stessi siano consapevoli di non essere reali fa sì che vengano percepiti come più veri degli influencer in carne ed ossa. Il pubblico non si sente preso in giro, ecco».
Quindi, in un certo senso attrae la loro perfezione irraggiungibile ?
«No, mi spiego meglio. La perfezione dei virtual influencer attrae chi li produce, in quanto si trovano tra le mani dei veri e propri burattini capaci di generare ingenti profitti. Basti pensare a Shudu Gram, prima supermodelle digitale che ha già posato per Vogue e Bazaar e ha collaborato con brand come Fila, Tods e Karl Lagerfeld. I virtual influencer sono super performanti, non hanno sbalzi di umore, non si ammalano, non sono mai stanchi o depressi, non possono morire. Sono dunque perfette macchine da sfruttare e risultano decisamente più convenienti per le aziende, che con budget inferiori raggiungono risultati sorprendentemente elevati».
E gli utenti, invece?
«Gli utenti sono attratti non tanto dalla perfezione irraggiungibile, ma dalla sicurezza che deriva da un dato di fatto: non sono come noi. Cito un esempio tratto dal libro: Lil Miquela, la virtual influencer brasiliana con 2 milioni di follower su Instagram, durante la pandemia pubblicò una foto che la ritraeva in aereo con indosso la mascherina. Lo scatto generò polemiche da parte degli utenti che ribadivano l’inutilità di indossare la mascherina per un essere non reale e, dunque, non soggetto a malattie. Ecco, questo attrae: l’idea di rivincita dell’uomo. Una rivincita basata sulla scoperta di una sorta di superiorità, sulla constatazione dell’esistenza di un’oleogramma che finge di essere umano, che lo imita, ma alla fine fallisce sempre. Inconsciamente l’utente, quindi, ne è attratto proprio perché si rapporta con qualcosa di estremamente simile, ma mai totalmente uguale, in cui poter proiettare quello che gli manca».
La maggior parte delle virtual influencer è rappresentata da donne giovani e fortemente sessualizzate. Pensiamo ad esempio alla virtual influencer italiana Emily Pellegrini. C'è una visione ancora profondamente patriarcale?
«Questo è un tema importante, nonché preoccupante. Quasi tutte le virtual influencer, ad eccezione di alcune - Kami, per esempio, è una virtual influencer con la sindrome di Down - rispondono a canoni femminili che la società contemporanea cerca di combattere da anni. Sono infatti quasi sempre donne molto giovani, belle, sexy, sempre di buon umore, disponibili e molto sessualizzate. Mentre, per quanto riguarda i virtual influencer uomini, esistono ma sono in minoranza e soprattutto non sono così noti».
Come sarà il futuro dell’influencer marketing? Virtual influencer come moda passeggera o destinati a vincere sugli influencer in carne ed ossa?
«Si discute molto su come sarà il futuro prossimo. E secondo numerosi studi l’uomo avrà sempre più bisogno di comunicare con persone inesistenti e meno con persone umane. Già oggi esiste un'app, SocialAI, programmata per essere una piattaforma in cui utenti reali pubblicano post ma ad interagire sono solo persone virtuali. Quindi, considerando questi studi attendibili, credo che in un futuro prossimo il fenomeno dei virtual influencer potrà solo crescere, comportando certamente la nascita e la necessità di grandi dibattiti etici, ai quali non potremo sottrarci».